Diamanti super profondi: da uno studio condotto dal Dipartimento di Geoscienze nuove importanti scoperte sui processi del mantello terrestre

 

 

I diamanti sono uno strumento chiave per indagare profondità del mantello terrestre altrimenti inaccessibili: questi minerali sono infatti gli unici campioni naturali presenti sulla superficie terrestre a fornirci informazioni di carattere mineralogico e geochimico sull’interno del nostro pianeta, fino a circa 800 km di profondità, e conservano le tracce di quanto accadde all'interno della Terra miliardi di anni fa. 

A darci queste importanti informazioni non è tanto il diamante in sé, composto quasi unicamente da atomi di carbonio, ma sono le inclusioni contenute al suo interno, cioè “frammenti” di minerali che costituiscono le rocce presenti nel mantello terrestre e che il diamante ha intrappolato durante la sua formazione. Ecco perché i diamanti non hanno un valore inestimabile solo in ambito gemmologico come pietre preziose, ma anche in quello geologico.

Negli ultimi decenni, lo studio di queste inclusioni ha messo in evidenza e dimostrato processi geodinamici avvenuti (e che tuttora avvengono) all’interno del nostro pianeta, in precedenza solo sperimentalmente predetti. In particolare, i diamanti e loro inclusioni hanno portato notevoli contributi nel comprendere il ciclo del carbonio e altri elementi all’interno della Terra.

Uno studio internazionale, condotto da ricercatori del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e recentemente pubblicato su Geology, ha adesso dimostrato per la prima volta come i diamanti prima di essere catturati e trasportati in superficie da magmi kimberlitici, possano viaggiare verso profondità maggiori rispetto a quelle di formazione. Un risultato che indica come l’immagine dei diamanti che si formano e catturano materiale da un livello specifico del mantello per poi viaggiare verso l’alto sia probabilmente troppo semplicistica.

Scendendo più nel dettaglio dei risultati di questo studio, a rendere possibile la dimostrazione del viaggio del diamante verso il basso è stata l’identificazione di una piccolissima (nell’ordine dei 10 micron) inclusione multi-fase all’interno di un diamante di 1.3 carati, proveniente dalla Repubblica Centrafricana. Questa inclusione è composta da ringwoodite (γ-Mg2SiO4), zirconia tetragonale (ZrO2) e coesite (SiO2). La ringwoodite è il polimorfo d’alta pressione dell’olivina, il minerale più abbondante nel mantello superiore, stabile a profondità tra circa 525 e 660 km nella zona di transizione. Questo, oltre a testimoniare il fatto che il diamante in questione ad un certo punto della sua storia all’interno del mantello è stato a queste profondità, rappresenta il secondo ritrovamento di questo minerale all’interno di un diamante naturale. D’altra parte, la presenza della zirconia tetragonale e della coesite in contatto tra loro può essere giustificata se inizialmente questi due minerali costituivano uno zircone (ZrSiO4) o una reidite, polimorfo d’alta pressione dello zircone.

Sperimentalmente, infatti, si dimostra come lo zircone con l’aumentare delle condizioni di pressione, si trasformi a profondità di circa 550 km in zirconia (ZrO2) + silice (SiO2) d’alta pressione. Considerando anche la presenza della ringwoodite, l’inclusione multi-fase analizzata può essere spiegata come la trasformazione, dovuta ad un aumento delle condizioni di pressione, di una precedente inclusione composta da olivina/wadsleyite+zircone/reidite, intrappolata dal diamante a profondità minori. Il diamante, nello specifico, dopo aver catturato l’inclusione, ha viaggiato fino ad una profondità tra i 550 e i 660 km, dove l’olivina/wadsleyite e lo zircone/reidite hanno potuto trasformarsi in ringwoodite e i polimorfi d’alta pressione della zirconia e della silice. L’associazione tra olivina e zircone può sembrare insolita, poiché lo zircone è tipicamente un minerale accessorio delle rocce crostali, come i graniti. Tuttavia, esempi di zirconi sono stati riscontrati anche in rocce ultramafiche, come quelle del mantello, i quali sono considerati come minerali residuali o prodotti metasomatici legati all’interazione tra rocce ultramafiche e fluidi o fusi di origine crostale. Di conseguenza, l’inclusione multi-fase studiata dimostra per la prima volta come un diamante dopo la sua precipitazione, può viaggiare anche verso il basso a profondità maggiori all’interno del mantello, probabilmente seguendo la dinamica della subduzione, e non solo verso l’alto a profondità minori. Questo aspetto apre nuove prospettive sull’interpretazione delle informazioni veicolate dalle inclusioni all’interno dei diamanti e potrebbe avere importanti implicazioni sul ruolo dei diamanti nel riciclo di materiali, anche crostali, a varie profondità del mantello terrestre. 

E’ incredibile come un’inclusione così piccola sia stata in grado di fornire delle informazioni così importanti e dettagliate riguardo il “viaggio” fatto dal suo diamante ospite all’interno del mantello terrestre, dimostrando per la prima volta che probabilmente i diamanti che noi tocchiamo con mano possono raccontarci molto di più di quello che pensiamo su ciò che avviene all’interno del nostro pianeta”, ha commentato Sofia Lorenzon, dottoranda del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e prima autrice dello studio.     

                                                                                                                        Per il Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova hanno partecipato alla ricerca anche Dr. Davide Novella, Prof. Fabrizio Nestola, Prof. Paolo Nimis e Dr.ssa Martha G. Pamato.

A questo studio, oltre che il Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, hanno contribuito anche Dr.ssa Emilie Thomassot dal “Centre de Recherches Pétrographiques et Géochimiques dell’Université de Lorraine” (Nancy, Fracia), Prof. Steven D. Jacobsen del “Department of Earth and Planetary Sciences della Northwestern University” (Evanston, Illinois, USA), Prof. Frank Brenker del "Geoscience Institute della Goethe University", (Francoforte, Germania), Dr.ssa Loredana Prosperi dell’Istituto Gemmologico Italiano (Milano, Italia) e Prof. Matteo Alvaro del Dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Pavia.